mercoledì 1 febbraio 2012

Musica - The Twilight Sad "No One Can Ever Know" (2012)


RICAPITOLIAMO :

Terzo album  per questi ragazzi scozzesi, dopo due dischi in cui avevano regalato grandissimi momenti di emozione agli amanti del rock influenzato dal noise e dal post punk più incendiario.

GENERE E VOTO : post punk innestato su synth e attitudine industrial, 7/10



E fu così che il “fascino” dei suoni sintetici e delle tastiere investì un altro dei valorosi baluardi del rock elettrico, tirato, portentoso, deflagrante al limite – talvolta- del cacofonico. La predilezione della forma canzone nei suoi canoni tipici (minutaggio, alternanza precisa di melodia e strascichi strumentali, obiettivo fissato nella convenzionalità dell’inciso che prepara il terreno al chorus ricercatissimo) già avviata con “Forget the night ahead” completa il suo percorso in questo album. Senza girarci molto attorno i registri sonori sono molto mutati con una tendenza, soprattutto nella seconda parte, alla rarefazione e al synthetismo.

 Onestamente mi aspettavo molto da questo Lp, o per meglio dire attendevo con una certa fiducia i Twilight Sad al varco della terza uscita. Tuttavia chi tiene un occhio di riguardo per una determinata band, tende ad essere un po’ egoista e osservare con occhio critico e scettico il “cambiamento”. Ma del resto parliamo di artisti, persone che oltre a lavorare con la musica sono legati ad essa da ambizioni e sensibilità. Per cui per determinati musicisti variare il proprio registro, esplorare soluzioni differenti sia nella scrittura che negli arrangiamenti diventa ad un certo punto un’esigenza legata a doppio filo a quella sensibilità di cui parlavo prima. Non è detto che queste esplorazioni in territori nuovi musicalmente parlando, siano sempre sinonimo di una migrazione definitiva verso un altro sound differente da quello classico.

Per questo si parla di dischi di transizione, ovvero di album che sono testimoni di un momento particolare dal punto di vista creativo e che risentono concretamente di determinate esigenze di sperimentazione che, il più delle volte, come un capriccio, volano via nel breve termine quasi come se non fossero mai esistite. E così va preso questo “No one can ever know”, convenzionale per i più, forse quanto di più difficile si possa fare per chi l’ha concepito. Perché differente da quanto fatto finora. Nelle scelte stilistiche. Dove le chitarre hanno incredibilmente un ruolo secondario, scavalcate nelle gerarchie da drum machine e synth (diverse soluzioni ricordano i “Maps”).

Scelte che sembrano fuori luogo, che potrebbero risultare eccessivamente snaturanti (anche se determinate caratteristiche come la ridondanza di alcuni versi , l’enfasi interpretativa, la tendenza alla progressione nel ritmo sono sempre al loro posto) e che senz’altro apriranno ampi fronti di discussione. Ad ogni modo soprattutto grazie all’abituale ottima prestazione di James (e a quella tensione molto particolare trasmessa dalla loro scrittura) riescono ad addolcire la pillola del cambiamento e condurre il disco senza rubar nulla ad una corposa sufficienza.


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